"Voglio che vi dimentichiate di tante cose.Dimenticate ciò che vi faceva impazzire. Dimenticate le preoccupazioni e le ansie, sapendo che io ho tutto sotto controllo. E c'è una cosa invece che vi prego di non dimenticare mai.
NON DIMENTICATEVI DI PARLARE CON ME, SPESSO.
Vi voglio bene! Voglio sentire la vostra voce. Voglio entrare a far parte delle cose che succedono nella vostra vita. Voglio che parliate con me dei vostri amici e delle vostre famiglie.
La preghiera per voi deve essere semplicemente una chiacchierata con me. Voglio essere il vostro amico più caro."

Sri Bhagavan

23/05/09

L'ESPERIENZA DELLA FEDE







Conferenza Anandagiri
Milano, 17 maggio 2009.


Questa conferenza, dal titolo "Risvegliarsi all'unità", ha per scopo di invitare a "innamorarsi della vita": e gli italiani sono in grado di capirlo perfettamente.


In India non possiamo separare la religione dalla nostra vita quotidiana, la spiritualità dalla vita materiale. Non facciamo distinzioni. Ogni cosa è celebrazione della vita, e la spiritualità è celebrare la vita.

Dio, il divino - in qualsiasi forma vi piaccia percepirlo o crederci - o chiunque abbia progettato questo mondo, Natura o Universo che sia, ci ha dato enormi capacità e abilità, non solo per progredire nel mondo materiale, ma anche per stare bene, divertirci, godercela.

Possiamo avere un sacco di cose bellissime nella vita: agi, comodità e le capacità di avere una vita sempre migliore, ma anche la consapevolezza per goderne appieno. Perché godere di quello che abbiamo rende la vita completa.

Quando studiavo nella scuola Jeevashram, fondata da Amma e Bhagavan, ed ero in settima classe (che corrisponde alla seconda media italiana) un giorno venne un gruppo di una decina di persone a visitarla.

Gli allievi della scuola a un certo punto dovevano intrattenerle e ci erano venute molte idee diverse: fare vedere come praticavamo lo yoga o le arti marziali, recitare delle poesie in inglese, addirittura dall'ultimo verso al primo, finché uno dei miei compagni decise di recitare un pezzo teatrale. Non avevamo un palcoscenico, così lo recitammo all'aperto sotto gli alberi di mango.

Il brano si chiamava "Il taglialegna americano" ed era tratto dalla nostra antologia. Raccontava la storia di un taglialegna di un paesino del Colorado, che viveva vendendo legna da ardere. Aveva una vita serena. Ogni giorno si alzava con calma, andava nel bosco, tagliava un po' di legna, andava a venderla e ne ricavava il necessario per vivere. Il resto del tempo lo passava riposando, andando a passeggio nella natura, stando con la famiglia e i figli, e ogni tanto andava in paese a far due chiacchiere con gli amici. Insomma, si godeva la vita.

Un giorno, mentre stava facendo un pisolino nel bosco nascosto dietro un cespuglio al limitare del sentiero, un uomo che passava di lì inciampò nelle sue gambe e lo svegliò di colpo. Entrambi rimasero molto sorpresi.

L'uomo veniva dalla città di Denver e gli chiese "Cosa ci fai qui?"
"Dormo."
"Ma qui in mezzo al sentiero? E chi sei?"
"Sono un taglialegna, vendo legna da ardere in paese. E tu?"
"Anch'io vendo legna, ma ho una grande azienda in città. Tu con cosa lavori?"
"Con questa" rispose il taglialegna mostrando la sua ascia.
"Ma come? Non sai che ci sono macchine che tagliano interi alberi ogni giorno?"
"E cosa ne fate?"
"Li esportiamo in tutto il mondo."
"E poi?"
"E poi ne ricaviamo un sacco di soldi. Se tu facessi altrettanto avresti una grande azienda e vivresti in città, con una bella casa, una bella macchina per andare in giro…"
"E poi?"
"E poi, dopo tanto lavoro e tanti sforzi, un domani potresti avere del tempo libero per te stesso e riposare.”.
"E io cosa ora sto facendo?"
L'uomo di città non capisce che quello che vuole raggiungere - lo scopo del progresso - l'altro lo ha già!
E infatti il progresso è in continua evoluzione: tecnologia, scienza, medicina, fisica… Ci sono state scoperte e miglioramenti sotto ogni punto di vista. Ma in politica? Nell'economia? In questi campi no. Perché per progredire in questi settori ci vuole un breakthrough, una comprensione, un salto di coscienza.
Tutto il progresso dovrebbe mirare a portare felicità e appagamento.

La scuola di Jeevashram era molto speciale. Io ci sono arrivato a undici anni, in seconda media, ed era una scuola che aveva una visione ben chiara, quella dei suoi fondatori: contribuire a creare dei buoni cittadini del mondo. Ma come?

Quando vi arrivai la prima volta non ero molto contento, perché si trovava a 300 chilometri da casa, lontano dalla mia famiglia e dai miei amici. Ma se oggi sono qui con voi è grazie a quella scuola e ai suoi fondatori. Non ero contento, tuttavia era una decisione di mio padre. Con lui dunque andai all'incontro richiesto dal direttore della scuola per l'ammissione degli studenti. Non potevo intromettermi nel colloquio ma fui autorizzato a presenziarvi. Cercavo di capire di cosa si trattava.

Dovete sapere che in quegli anni - era il 1987 - gli indiani erano appassionati di due sole cose: l'ingegneria informatica, con la prospettiva di andare in America a lavorare, e il cricket, il nostro sport più popolare. Anzi, non è nemmeno uno sport, è una religione.

Bene, mio padre disse al direttore della scuola che voleva che diventassi ingegnere informatico. Non solo. "Voglio che mio figlio diventi un uomo di successo" aggiunse. Io intanto mi chiedevo che cosa volesse dire: in quegli anni noi ragazzi non sapevamo nulla di queste cose, internet non c'era, e per noi l'unica cosa che contava era divertirci.

La risposta del direttore fu alquanto singolare: "Lei è preparato ad accettare che suo figlio fallisca nella vita? Solo se lo è, possiamo accettarlo in questa scuola.”. Che cosa voleva dire?

In realtà, tutti abbiamo una passione per qualcosa, e questa passione dipende da come siamo fatti, dalla struttura del nostro cervello. Qualcuno ha la passione di diventare un artista, o un medico, o un ingegnere, o un attore… Se sei programmato per diventare quella tal cosa, e se hai quella passione, puoi diventarlo ed eccellere. Per eccellere in quello che fai, contano infatti due cose: devi amarlo e devi esserci portato. Se invece ti sforzi di fare una cosa, non eccellerai mai. E lotterai per dare un senso alla tua vita, non ne godrai.

"Per noi suo figlio è molto importante. E dobbiamo aiutarlo a trovare la sua passione nella vita e a perseguirla" continuò il direttore della scuola. "In tal modo potrà contribuire con qualcosa di originale alla nostra società e diventare un buon cittadino del mondo.”.

Io capii poco, ma sentii che la cosa mi piaceva. Sentii di essere tenuto in gran conto, di essere valorizzato. Per un momento temetti che mio padre non volesse lasciarmi lì. Invece mi prese per mano e disse: "Signore, l’affido mio figlio.”.

Mi sono sentito sollevato: ed è stato un momento cruciale della mia vita. Per la prima volta ho sperimentato che qualcuno - un estraneo, uno che non era né mio padre né mia madre, né un fratello, né un amico - si occupava di me.

Quando vi sentite importanti, valutati e riconosciuti, è sempre un momento speciale. E quella era una scuola che si prendeva cura, che credeva profondamente nel fatto che ci sono due aspetti della vita che vanno perseguiti: il risultato (achievement) e la soddisfazione o appagamento (fulfilment). Mentre la scuola in genere tende a focalizzarsi solo sul risultato, Jeevashram era focalizzata sullo studente in quanto tale, sulla persona.

Ricordo che vicino al dormitorio c'era appeso su una parete un quadro molto bello, intitolato "la macchina dell'educazione". Ci passavano davanti tutti i giorni, e ne eravamo affascinati. Mostrava una specie di fabbrica/scuola in cui venivano inseriti i bambini e il processo educativo era paragonato alla lavorazione della materia prima per arrivare al prodotto finito.

La prima fase del processo era alimentata, come fosse benzina per una macchina, dal "paragone" e dalla "competizione" e il fumo delle scorie che usciva dalle ciminiere era la "creatività". Nella seconda fase la benzina era la "paura" e le scorie erano la "spontaneità". Il prodotto finito era il laureato, dotato di competenze, abilità, conoscenze, nozioni… ma che cosa aveva perso?

Qualche mese fa ero in Australia ospite di una famiglia. Con i padroni di casa stavamo parlando di scuola e il padre disse: "Ho una bella casa, una posizione, tutti i soldi che mi servono e molto di più. Ma sento di aver perso, rispetto a quand'ero bambino, la capacità di fare amicizia, di connettermi con le persone. Oggi, dopo oltre trent'anni, sento che richiede un sacco di sforzi…" In quel momento suo figlio dodicenne, che era appena tornato da scuola e aveva sentito, intervenne: "Ma papà… non è vero! È così facile. Con gli altri ragazzi basta salutarsi e siamo subito amici.”. E il padre commentò: "Ecco, capisco quanto mi sono allontanato da tutto questo.”.

Quindi è importante, nella vita, raggiungere degli obiettivi, ottenere dei risultati. Ma anche star bene e divertirsi. Godersela.

Raggiungere gli obiettivi (achievement) vuol dire diventare qualcuno. E infatti abbiamo tutti bisogno di essere speciali, per noi è importante avere un senso in tutto quello che facciamo. Chi ha posto in noi questo desiderio? Chiunque sia stato - Natura, Dio - dobbiamo onorare questo bisogno. Ma non è tutto. Possiamo anche ottenere il massimo risultato, essere il primo uomo a porre piede sulla Luna, come Neil Armstrong. È una cosa che dà piacere, ovviamente. Ma poi ci si chiede: "E poi?"

Un giorno da bambino guardavo in televisione le gare di Wimbledon e c'era il vincitore con la coppa in mano. Ai giornalisti che gli chiedevano "Come ti senti?" rispose: "È solo una coppa!". Certo, ci si senti speciali, importanti. Ma non basta. Alla fine ci si chiede "E allora?"

L'appagamento (fulfilment) è l'abilità di connettersi con la gente intorno a noi, la capacità di provare gioia, ed è una cosa che dà anche una grande forza.

Sri Bhagavan dice: "la vita è relazione". Vuol dire che è la relazione che dà senso alla nostra esistenza. Relazione vuol dire essere capaci di connettersi con gli altri, senza paura né colpa, senza cariche emozionali e pesi del passato, senza sentirsi feriti o delusi.

Le cariche emozionali sono le impressioni che ci derivano dal passato e che ci portiamo dentro. Partono dal primo momento in cui veniamo concepiti da nostro padre e nostra madre, dalle loro idee dai loro desideri, e da tutte le esperienze avute mentre eravamo nella pancia della mamma. Tutto quello che i nostri genitori hanno sperimentato, lo abbiamo sperimentato anche noi. E da quel momento in poi abbiamo migliaia e migliaia di "impressioni" - piacevoli o spiacevoli - che costituiscono le "cariche" del passato. Che si accumulano nel tempo e ci definiscono, determinando ciò che ci piace o no, le nostre percezioni della vita, le nostre idee, le nostre convinzioni sulla religione, sulla felicità, sul successo, come ci connettiamo con le persone e così via. È la nostra storia.

Quando ci relazioniamo con gli altri in libertà, allora siamo liberi; noi siamo così come siamo, loro sono come sono: è un'esperienza straordinaria. Allora è molto appagante.

Se non lo facciamo in questo modo, in libertà, proviamo un senso di mancanza.

Nel novembre del 2008 sono stato per qualche giorno a casa di Tony Robbins, il famoso formatore che è anche diventato Oneness facilitator, insieme a Krishnaji, il figlio di Amma e Bhagavan. È lui che ha creato i corsi della Oneness University, che ha fondato il campus alle Fiji e quello in Italia, che ha realizzato l'Oneness Temple.

Sono arrivati degli amici di Tony, tutta gente molta ricca che però, per la crisi, aveva perso un sacco di soldi se non rischiato la bancarotta. Erano tutti molto depressi. Ma ho imparato qualcosa da loro. In genere infatti si pensa che senza ricchezza siamo infelici, che siamo incapaci di essere felici se non c'è sicurezza economica.

A un certo punto ho chiesto a uno di loro: "Qual è stato il momento più bello della tua vita, di recente?" Lui ha ricordato un pomeriggio con il figlio, quando erano insieme sulla spiaggia a giocare, e lo aveva sentito molto vicino. Tony gli ha chiesto: "Quanto ti è costato?" "Niente.”. E poi un altro ha ricordato una sera passata con la moglie, che aveva cucinato una cenetta speciale, ed era stato un momento di grande connessione fra loro. E anche a lui non era costato nulla.

nostri momenti più belli e più felici non ci costano nulla. Sono momenti di connessione, di condivisione. Possono essere con chiunque: il partner, un figlio, un amico, un collega, persino un estraneo. Proviamo soddisfazione, appagamento, contentezza. È una felicità che viene dalla capacità di connettersi. La spiritualità è la crescita di questa capacità.

La nostra vera crisi riguarda la mancanza di connessione fra noi tutti: ci dà un senso di solitudine, di mancanza di scopo, di pesantezza, di conflitto interiore. Mentre l'appagamento sorge dal senso di continua crescita.

La razza umana è stata progettata per il progresso, per apprendere, e il progresso tecnologico al quale assistiamo è straordinario per permetterci di crescere. Basti pensare a mezzi di trasporto come gli aerei, che riportano da un posto all'altro in poche ore, o a internet, con cui possiamo comunicare on tutto il mondo e sperimentare emozioni di ogni genere. Internet ha creato un vero "cittadino del mondo". Certo, c'è anche il lato negativo, ma è un mondo straordinario.

Noi siamo spinti dalla passione di creare, siamo ossessionati dal progredire. Ma non può esserci progresso solo a livello del mondo esterno; dev'essere anche dentro di noi: nella spiritualità, nella felicità, nell'amore.

Quando smettiamo di progredire ci sentiamo vuoti, scontenti, soli, annoiati. Se smettiamo di crescere non restiamo dove siamo, ma andiamo indietro. Se non si va avanti, si va indietro, non c'è altra possibilità.

Nelle relazioni non si sta fermi. Quando impariamo a connetterci impariamo a lavorare per creare un mondo migliore.

Quindi il risultato e l'appagamento sono ugualmente importanti: solo se ci sono entrambi, insieme, c'è armonia nella nostra vita. La scuola di Jeevashram con la sua visione è diventata la Oneness University, con la sua visione di portare sia al risultato che all'appagamento.

Vi racconterò una storia.

Un giorno a Jeevashram - avrò avuto circa dodici anni - il direttore, Sri Bhagavan, entrò in classe e ci fece delle strane domande. "Quanti di voi vorrebbero diventare un giorno dei grandi leader?" Tutti abbiamo alzato la mano. In realtà all'poca non sapevamo neanche cosa volesse dire leadership. Avevamo piuttosto un'idea, dai film che vedevamo al cinema, dell'eroe che salva il mondo lottando contro il male.

"Per essere leader dovete fare tre cose" ci disse il direttore. "Primo, dovete prendere una decisione. È importante prenderla, buona o cattiva che sia.”. Non capimmo cosa intendesse davvero, ma detto così sembrava facile.

"Secondo, dovete mettervi in gioco, senza paura di sbagliare. Ogni tanto bisogna darsi la possibilità di essere vulnerabili e non aspettare di essere perfetti, di far sempre la cosa giusta." Di nuovo ci chiedemmo cosa intendesse davvero.

"Terzo, quando il vostro maestro vi fa una domanda, dovete parlare. Non importa quel che dite, ma parlate." E invece avevamo sempre paura di sbagliare, anche quando eravamo sicuri di sapere la risposta.

Quando il maestro tornò a far lezione, più tardi, e ci fece delle domande, tutti alzammo la mano. Volevamo dire qualcosa, qualunque cosa. Naturalmente abbiamo anche sbagliato. Ma questo ci ha insegnato a non aver più paura.

E ora un'altra storia, a proposito delle domande del direttore sul diventare leader.

Due anni fa, nel 2007, ero a Los Angeles. C'era un Oneness facilitator che voleva incontrarmi, perché stava morendo di tumore. Era all'ospedale, e quando andai da lui e mi misi a pregare a occhi chiusi, lui mi disse che non voleva preghiere, ma che mi aveva chiamato per raccontarmi una cosa importante prima di morire. E mi raccontò la storia delle sue ultime settimane, che erano state molto dolorose, dal punto di vista fisico, mentale e spirituale. Tutto era cominciato da una domanda che si era posto: "Quali risultati hai raggiunto nella vita?" Non se lo era mai chiesto, ma è una domanda alla quale non si può scappare. "Che cosa hai imparato, a che cosa hai dato un contributo?"

L'unica cosa che gli venne in mente era che aveva imparato a "non fare errori". Era sempre stato così attento a non sbagliare, aveva sempre cercato la perfezione, senza mai correre il rischio di fare errori! Per lui fu dolorosissimo. Ma accettò di vedere questa verità. Aveva imparato qualcosa. E quello fu il più bel momento della sua vita.



Avete qualche domanda?

Domanda
Io cerco di connettermi con gli altri, faccio molti sforzi in questo senso. Lavoro in un istituto con ragazzi in difficoltà e ho con loro un rapporto meraviglioso. Con gli educatori invece è difficile, con alcuni è come trovare un muro. Io vorrei sfondarlo, ma non basta essere gentile, abbracciare, cucinare, preparare un caffè… Cosa devo fare?

Anandagiri
Bella la tua osservazione su di te. Fai tante cose carine, piene di compassione. Ma manca qualcosa. Quello che non sai fare a te, non puoi farlo agli altri. Se non ti ami, se non ti accetti come sei, è difficile, anzi impossibile, farlo agli altri. Se non sei a tuo agio con te stesso, non lo sarai con gli altri. Se giudichi te stesso, giudichi gli altri.

Ogni relazione comincia con l'abbracciare se stessi. Se ti manca la connessione con l'altro, è perché manca a te, c'è qualcosa in te che non abbracci.

Torneremo a parlare di connessione più tardi, quando ci sarà anche una Oneness Experience dedicata proprio alla accettazione.

Domanda
Ho bisogno del tuo aiuto. Ho paura, vedo il mio potere distruttivo, so di avere anche un potere positivo in tante cose ma in questo momento sento che potrei fare qualsiasi cosa, persino tornare a casa e distruggerla dalle fondamenta. Ho tanta paura, è terribile (piange).

Anandagiri
Per aiutarti devo chiederti qualcosa e sii onesta nel rispondere.

In questa sala ci sono tante persone - saranno un migliaio - e tutti sono stati toccati nella vita in molti modi e hanno avuto l'esperienza di momenti di grazia o benedizione. Qualcuno li chiama colpi di fortuna, coincidenze, casi della vita. Tutti siamo stati toccati da qualche intelligenza, da qualche forza, dal divino - chiamiamolo come vogliamo - e ascoltando la tua storia sento che se tutti qui si mettessero a pregare Dio, apparirebbe… Immaginatelo pure nella forma che volete.
Ebbene, se Dio fosse qui davanti a te, che cosa gli chiederesti? Ti do tre opzioni per facilitarti. 1) Dio, voglio che i miei peccati siano perdonati; 2) Dio, distruggi il mio ego, perché sono cattiva; 3) Dio, io lotto tanto contro di me, mi odio tanto, perciò aiutami ad amarmi e ad abbracciare me stessa, a cantare una canzone sul mio ego.

Hai scelto la terza risposta, ottimo. E vedo che ora sorridi.

Infatti la paura, l'infelicità, lo sconforto che provi sono l'incapacità di accettarti per come sei. Tu resisti, lotti. Ma tutti abbiamo questi conflitti e sperimentiamo queste guerre dentro di noi. È il conflitto tra il nostro stato attuale e il nostro stato ideale. In tutti c'è questo conflitto. Anche dentro di me. L'unica differenza - se c'è una differenza - è che quando ho questo conflitto, e mettiamo sono in un momento di egocentrismo, non chiedo di eliminarlo. Anzi, chiedo: "Dio, sono egocentrico, aiutami ad accettare che lo sono." E Dio mi risponde: "Buona cosa che tu sappia di esserlo!". Se chiedi a Dio di aiutarti a non odiarti, riceverai quello che hai chiesto.
Abbiamo parlato di celebrare la vita, di amare la vita.

Bene, qual è lo sport preferito da voi in Italia? Il calcio, ovviamente. Se vi piace il calcio, e vi piace andare alle partite, benissimo: è splendido anche godere di una partita di calcio.

E quanti di voi notano i commenti alle partite? Avete fatto caso all'atmosfera drammatica che suscitano i commentatori, all'emozione che ci mettono anche prima che la partita cominci? Vien da chiedersi come facciano a parlare così tanto anche se non è ancora successo nulla… è un dono!

La mente è uguale a loro: commenta sempre i pensieri, le emozioni, le parole dette. Ed è sempre giudicante. Tutti i nostri processi vengono interpretati ed etichettati. Ma perché tutti questi commenti? Perché tutti portiamo in testa un'immagine dell'essere ideale. Da millenni è un programma della mente umana: la persona ideale, giusta, perfetta. La mente è condizionata in questo modo da secoli. Dobbiamo essere così.

E chi è questa persona ideale? È quella che non deve esser mai arrabbiata, mai gelosa, mai egocentrica, che deve essere piena di compassione, sempre gentile…

Io sono consapevole di avere un ego e lo accetto, così tutte le volte che c'è la brama di quell'ideale e mi chiedo cosa posso fare per diventare quell'ideale, la sfida è di accettare di essere come sono. Se riuscite a farlo, la magia accade. Provate a cantare una canzone all'ego… Io l'ho fatto quando avevo quindici anni ed è stato il mio primo passo verso la libertà. Bhagavan infatti un giorno mi ha detto, dopo che ero andato a parlargli perché sentivo di essere in un gran conflitto interiore e avevo visto tutto il mio ego: "Adesso che sai come sei, canta una canzone." E io andai in un angolo del giardino della scuola, davanti a una certa roccia, e cantai la mia canzone.

Se lo fai davvero, se ti abbracci così come sei, la magia accade. Puoi provare una calma e una pace mai provata prima. La gioia di essere te stesso. Altrimenti c'è solo paura. Non importa quello che sei: quando vedi come sei, allora hai l'esperienza di Dio, della trascendenza, del Sé superiore o come lo vuoi chiamare. Ed è la seconda cosa migliore che può accadere nella tua vita (ce n'è una ancora più grande).

Il viaggio inizia con la consapevolezza di quello che sei, non con l'ossessione per come dovresti essere. Krishnaji, il figlio di Bhagavan, mio amico d'infanzia, è sempre stato così, è sempre stato totalmente se stesso.

Perché, come dicevo prima, quello che non puoi fare a te non puoi farlo agli altri. Se vuoi una relazione con gli altri, la devi avere con te stesso.

Amare se stessi non è arroganza. Una persona felice non può dare problemi al mondo, mentre una infelice crea insicurezza. Una persona felice è pronta ad aiutare gli altri. Ed è libera.

Sembra che tutti abbiano una missione importantissima nella vita: cambiare gli altri. In genere infatti tendiamo a giudicare e a incolpare l'altro o gli altri: una persona, un fatto, un sistema, una situazione. Questo perché siamo stati condizionati a pensare che l'altro, gli altri, il mondo esterno siano responsabili dei nostri problemi e quindi vogliamo cambiarli. Quando abbracciamo noi stessi smettiamo di voler cambiare perché realizziamo che la sofferenza non sta nei fatti esterni ma nella nostra percezione dei fatti, nella interpretazione che diamo alle situazioni, nell'immagine degli altri che abbiamo. E ovviamente nessuno riesce a cambiare l'altro, proprio perché tutti cerchiamo di farlo.

Vi racconterò una storia.
Nel 1996 Bhagavan mi aveva chiesto di viaggiare per condividere la visione della Oneness, soprattutto in Nord e Sud America. L'ho fatto per tre anni, poi nel 1999 mi ha chiesto di coordinare il "Progetto dei 100 villaggi", in cui sono stato coinvolto per sei anni. Il progetto riguardava un'area dell'India meridionale, nella regione di Chennai, dove ha sede anche la Oneness University, popolata da circa novantamila persone. Io ho cominciato a pianificare scuole, assistenza medica, opportunità di lavoro, case. Ma un giorno Bhagavan mi ha detto: "La felicità delle persone è il vero indice del loro sviluppo." Quindi ho riorientato la mia visione e mi sono interrogato su come rendere felici queste persone. Per esperire la felicità è importante crescere nelle relazioni, nell'abilità di connettersi con gli altri. Perciò ho lavorato su questo. E adesso ci sono molti progetti così in India, e ne stanno partendo anche in Africa.

In quegli anni ho lavorato per circa sette-otto mesi vivendo in quei villaggi, con quelle persone. Ho mangiato con loro, meditato con loro, giocato con loro, pulito strade con loro… è stato un periodo molto importante per me.

L'ultimo martedì di ogni mese ci riunivamo e facevamo gare di indovinelli. Agli indiani piacciono molto (avete visto il film The Millionaire?). Erano domande su quello che avevano imparato e sulla loro vita. E giocavamo in due squadre a chi faceva più punti. Un giorno una ragazzina di 11 anni, Durga, pose all'altro gruppo questa domanda: "Che cosa provoca la sofferenza, che cosa ti fa star male?" E arrivarono varie risposte: "La sofferenza sorge quando ti fanno del male, quando ti tradiscono, quando ti disprezzano, ecc." Ma Durga disse di no, che la risposta era un'altra. E rievocò tre episodi che mi coinvolgevano direttamente, chiedendomi se me li ricordavo: tre settimane prima una mattina l'avevo sgridata perché non studiava; due settimane prima lei mi aveva salutata e non le avevo risposto; la settimana prima l'avevo scelta come volontaria per fare una certa cosa. Tutti sarebbero stati onorati di essere scelti, ma lei aveva pensato, anche alla luce dei due episodi precedenti, che io volessi "prenderla in castagna" e ci era rimasta malissimo. In realtà l'invito a studiare era giusto e lo aveva capito; poi quando non l'avevo salutata era solo, ovviamente, perché non l'avevo vista… e quindi poi era arrivata alla conclusione che la sua sofferenza era strettamente legata alla sua interpretazione delle mie parole. Insomma, aveva capito da sé che la sofferenza non sta nei fatti, ma nella nostra percezione dei fatti.

Ai giovani va insegnato come vivere la vita, come fare i conti con le paure, con le sofferenze. Scuola e genitori hanno il ruolo e la responsabilità di far sì che i giovani diventino cittadini del mondo, non solo di successo, ma felici.

Domanda
Sono mamma di una bambina e seguo il processo della Oneness da circa un anno. Mia figlia mi ha visto trasformarmi, provare più gioia, e penso di averglielo trasmesso. Prende l’oneness experience quasi ogni settimana, e oggi è qui con me. Ma mi chiedo se nel cercare di stimolarla, nel proporle il mio percorso, io non stia in realtà imponendole delle cose… Ho paura di giudicarla, di obbligarla… Mi accorgo di fare degli errori con lei…

Anandagiri
Io sono sicuro che tua figlia ha già apprezzato quello che hai appena detto e il fatto che tu ti sia posta il problema. E penso sia felice che l'abbia portata qui.

I bambini sono incredibili nella loro incapacità di indossare maschere. Che cosa apprezzano di più? Potete essere madri o padri, ma si aspettano comunque amicizia. Perché se si sentono posseduti da voi, se si sentono paragonati e giudicati, è dolorosissimo.

Ma, appunto, non ne parlano con voi, solo con chi pensano sia loro amico. Quindi non c'entra tanto quello che fate, ma da dove vi posizionate: se da uno spazio di "possesso" dei vostri figli o da uno spazio di amicizia. In questo caso, anche se siete severi, lo apprezzano. Quando invece i figli si mettono la corazza, poi non si connettono più con la gente. Facciamo un esempio. Vostro figlio sta guardando la televisione e voi gli dite che deve studiare perché il giorno dopo ha un esame. Vi guarda senza parlare e vi sta dicendo di no. Poi arriva un suo amico, gli dice la stessa cosa invitandolo ad andare a studiare insieme, e va bene. Dipende dallo spazio in cui dite le cose. I genitori hanno davvero il desiderio che i figli crescano? Allora devono prima lavorare su di sé. In India proponiamo dei corsi per genitori e li facciamo lavorare, dopo aver dato loro l’oneness experience, guidandoli a diventare i propri figli, a sentire dentro di sé quello che i loro figli sentono. I genitori devono connettersi ai propri figli, sentire profondamente questa amicizia.

Domanda
In India c'è ancora il sistema delle caste: io non lo capisco, e vorrei sapere la tua posizione in proposito.

Anandagiri
La discriminazione basata sul sistema delle caste, in India, è una vera disgrazia. Tanto più in un mondo dove c'è un continuo progresso verso la fine di ogni differenza, e questo grazie anche a internet. Basti pensare che quindici anni fa ho viaggiato in Nord e Sud America incontrando un sacco di gente e otto anni dopo, quando ho ripreso a viaggiare dopo essermi occupato del progetto dei 100 villaggi, ho trovato tutto molto diverso. Le stesse persone che avevo incontrato otto anni prima erano così cambiate! Come idee, vedute, percezioni. Com'era possibile un così grande cambiamento? Quelle persone già prima si preoccupavano dei loro figli, del lavoro, erano belle persone. Ma il raggio dei loro interessi si era espanso enormemente: si occupavano del mondo! Erano meno nazionali e più globali. Oggi, questo numero di cittadini del mondo cresce di continuo. Quindici o venti anni fa erano solo i leader politici e pochi attivisti. Oggi un sacco di gente si occupa di quel che avviene nel mondo, proprio come fanno i leader. Tutti pensano in modo diverso, è un vero e proprio risveglio generale. Oggi abbiamo più cittadini del mondo che in qualsiasi altra epoca. Quindi anche l'India deve andare in questa direzione. Anche se lentamente, a causa dei nostri politici e capi che sopravvivono proprio grazie al mantenimento delle differenze. Speriamo che presto tutto cambi e siamo ottimisti su questo.


CONFERENCE MAGGIO 2009
ALCUNI PUNTI DELL’INTERVENTO DI ANANDAGIRI-JI SULLA SOFFERENZA


Quando percepiamo qualcosa di noi che non ci piace e vorremmo non sentirlo, entriamo nella sofferenza perché ci opponiamo a quello che stiamo sentendo.

Ma finché non contattiamo la nostra SOFFERENZA, finché non ne diventiamo consapevoli, non possiamo sperimentare la FEDE.

La FEDE è l’esperienza della CERTEZZA.

Se facciamo esperienza della nostra paura, la sofferenza se ne va, si trasforma in gioia.

Allora c’è Fede, c’è la certezza di questo processo.

Non resistendo alla sofferenza, faremo esperienza di una certezza: che non avremo più paura della sofferenza.

Come raggiungiamo questa certezza? del non avere più paura della sofferenza? Affrontandola. Quando la guardi e ne fai esperienza, vedi che si trasforma in gioia.

Nella vita c’è sofferenza. Ma se riusciamo a metterci in contatto con il nostro disagio abbiamo la possibilità di arrivare a una comprensione. Quando sentiamo disagio, significa che la comprensione è dietro l’angolo.

Quando abbiamo paura, abbiamo la possibilità di fare esperienza di un cambiamento, di una trasformazione.
















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Sri Bhagavan: Le 7 verità per essere liberi dalla sofferenza

1. Ogni cosa viene da un’unica sorgente. Potrebbe essere Dio o Energia. Non c’è inizio o fine della vita.
2. Se tu identifichi questa sorgente, non farai più differenza tra buono, cattivo, giusto o sbagliato. Tutte queste cose sono nostri punti di vista. Ogni cosa viene da un’unica sorgente.
3. La vita non è altro che una ricerca del “SE’ ”. Nella tua vita le cose che ti succedono, la gente che vedi, ogni cosa è un riflesso del tuo “Sé”. Se soffri di povertà, significa che c’è qualcosa di sbagliato in te. Lo devi correggere per poter uscire dalla tua povertà. Se hai odio, chiunque tu incontri avrà quella stessa qualità. Se hai pensieri malevoli, anche le persone che incontrerai li avranno. Quindi innanzitutto cerca di capire te stesso/a.
4. Renditi conto che qualsiasi cosa di cui tu fai esperienza in questa Vita avviene per grazia di Dio. Supponiamo che tu scivoli mentre cammini, cerca di capire che anche quello avviene per grazia di Dio. Se tu vedi Dio in ogni cosa la tua vita diventa stupenda.
5. Renditi conto che ogni cosa di cui fai esperienza in questa tua Vita è semplicemente una “prova” che Dio ti dà. Non è una cattiva esperienza. Se la consideriamo come tale allora vorrebbe dire che Dio non ha compassione. Se hai un problema, consideralo come un’opportunità che hai di affrontarlo e uscirne fuori. Ti sono state date le persone, la ricchezza e le capacità per affrontare tali sfide. Se lo capisci, le tua capacità miglioreranno. Proprio per mettere alla prova le tue capacità, Dio ti crea queste situazioni.
6. Se tu ti rendi conto che ogni cosa di cui fai esperienza è una prova che Dio ti dà, allora sarai in grado di vedere in profondità il problema e gestirlo nel modo migliore. Capirai il suo risultato e allora non avrai nessuna paura.
7. Se capisci le sei verità precedenti, allora ci sarà un’enorme trasformazione nel tuo corpo. Da quel momento in poi, non solo avrai compassione, ma diventerai quella “compassione”.